Proposta Radicale 21/22 2024
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Saggio

La mia religione

di Lev Tolstoj (a cura di Guido Biancardi)

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Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

Audizione dell’avvocato Fabio Trizzino

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La mia religione

La mia religione

di Lev Tolstoj (a cura di Guido Biancardi)

(di seguito la nona parte dell’opera, inedita per l’Italia, de “La mia religione”, di Lev Tolstoj) 

A prima vista questa dottrina sembra innocente. Ma una trasgressione della verità non è mai innocente, provoca conseguenze tanto più importanti quanto importante è l’oggetto della menzogna. Ora, qui, l’oggetto della menzogna è l’intera vita umana. Ciò che questa dottrina considera come una vera vita è una vita individuale beata, eterna e senza peccato: una vita che nessuno ha mai conosciuta e che non esiste. Quanto alla vita che esiste, la sola che conosciamo, quella che viviamo e che da sempre vive tutta l’umanità, essa è, secondo questa dottrina, una vita decaduta, cattiva, soltanto una campionatura della buona vita, di quella che ci conviene. 

Questa dottrina annulla completamente la lotta fra l’aspirazione alla vita animale e quella alla vita raziocinante che giace nell’anima di ogni uomo e costituisce l’essenza della vita di ciascuno. Questa lotta è trasferita entro un avvenimento che è capitato a Adamo in paradiso, nel momento della creazione del mondo. Per questa dottrina la questione “devo o no mangiare tutte le mele che mi tentano?”, non esiste per l’uomo. Questa questione è stata risolta una volta per tutte da Adamo, in modo negativo. Adamo ha peccato per me, ha errato e tutti noi siamo decaduti irrimediabilmente e tutti i nostri sforzi per vivere secondo ragione sono inutili e persino empi. Io sono irrimediabilmente cattivo, e devo saperlo. La mia salvezza non consiste affatto nell’illuminare la mia vita con l’intelligenza, ed a distinguere il bene dal male al fine di fare ciò che è meglio. No: dato che Adamo ha agito male in mia vece una volta per tutte, e il Cristo ha riparato a questo male ugualmente una volta per tutte, non mi resta dunque che affliggermi per la caduta di Adamo e gioire della salvezza apportata dal Cristo, come semplice spettatore.

La vita quale esiste su questa terra, con le sue gioie, le sue bellezze, con la sua lotta della ragione contro le tenebre, la vita di tutti gli uomini che sono vissuti prima di me, ed anche la mia, con la mia lotta interiore e le vittorie della mente, non sarebbe la vera vita, ma una vita decaduta, definitivamente sprecata; la vita vera senza peccato risiederebbe nella fede ovvero nell’immaginario, ovvero nella follia. Si è dovuto presentare come inesistente ciò che è, e come esistente ciò che non è perché si arrivasse ad una così stupefacente contraddizione. È questa falsa rappresentazione che ritrovo nella fede pseudo-cristiana predicata da 1500 anni. Ora si intende questa obiezione contro la dottrina del Cristo, secondo la quale il suo insegnamento è buono ma irrealizzabile, non solamente sulla bocca dei credenti ma anche in quella dei non-credenti. 

Questa stessa obiezione è avanzata da uomini di scienza, da filosofi, da uomini istruiti che si considerano liberi da ogni superstizione, che non credono a niente, e che quindi si ritengono liberi dalla superstizione della caduta e della redenzione. È vero che coloro che si dicono non-credenti non credono né in Dio, né in Cristo, né in Adamo; ma alla falsa idea centrale secondo la quale l’uomo avrebbe diritto ad una vita di beatitudine, idea sulla quale si basa tutto, essi vi credono come ed anche più fermamente dei teologi.

La scienza, con tutti i suoi privilegi e tutta la sua filosofia ha un bell’inalberare il suo coraggio pretendendo di guidare le menti, essa non è guida, è supporto. La sua visione del mondo le è sempre data già pronta dalla religione e la scienza lavora unicamente sulla via che le è stata mostrata dalla religione. La religione scopre il senso della vita degli uomini, la scienza applica quel senso ai diversi aspetti della vita, Per questo, se la religione dà un falso senso alla vita, la scienza, formata all’interno di questa percezione religiosa del mondo, applicherà in diverse maniere questo falso senso alla vita degli uomini. È proprio ciò che succede alla nostra scienza europea cristiana ed alla nostra filosofia. 

La dottrina della Chiesa colloca il senso principale della vita degli uomini nel diritto ad una vita beata, conseguita non attraverso gli sforzi dell’uomo, ma a mezzo di qualcosa d’esteriore, e questa percezione del mondo diventa la pietra angolare di tutta la nostra scienza e di tutta la nostra filosofia. La religione, la scienza, l’opinione pubblica affermano chi meglio dell’altra che la vita che noi facciamo è cattiva, ma che una dottrina che ci insegna come divenire migliori e ciò facendo rende la nostra vita essa stessa migliore, questa dottrina è irrealizzabile. 

L’insegnamento del Cristo, dicendoci che gli uomini possono migliorare le loro vite con le loro proprie forze, sarebbe irrealizzabile secondo i teologi perché Adamo è caduto ed il mondo giace nel male. Questo insegnamento è egualmente irrealizzabile secondo i filosofi poiché la vita umana si compie secondo leggi conosciute indipendenti dalla volontà dell’uomo. La filosofia e tutta la scienza non fanno che confermare il dogma del peccato originale e della redenzione, solo i termini cambiano.

Il materialismo con la sua affermazione stupefacentemente entusiasta che l’uomo non è nient’altro che un processo, è un’opera degna di questa dottrina che ha riconosciuto che la vita di quaggiù era una vita decaduta. Lo spiritismo ed i suoi sapienti discepoli sono la miglior prova del fatto che gli approcci scientifici e filosofici non sono liberi ma che sono fondati su questa dottrina religiosa che proclama normale per l’uomo una vita eterna beata. Questa deviazione (distorsione) del senso della vita ha pervertito tutta l’attività raziocinante dell’uomo. Il dogma della caduta e della redenzione ha velato agli uomini la sfera più importante e più legittima della loro attività, ha trincerato della sfera delle conoscenze umane quella di ciò che l’uomo deve fare per diventare migliore e più felice. La scienza e la filosofia, immaginando di agire in contrasto con lo pseudo-cristianesimo, cosa di cui sono fiere, non fanno che portare acqua al suo mulino. La scienza e la filosofia trattano di tutto ciò che volete, eccetto la questione: come potrebbe l’uomo essere migliore e vivere meglio? Ciò che è chiamata etica, l’insegnamento morale, è completamente scomparso nella nostra società pseudo-cristiana. 

I credenti come i non-credenti non si domandano mai come bisogna vivere e come utilizzare la ragione che ci è stata data, ma si domandano perché la vita degli uomini non è quale l’abbiamo immaginata e quando essa diventerà come la vogliamo. È solamente a causa di questa falsa dottrina, assimilata generazione dopo generazione, che ha potuto prodursi un fenomeno stupefacente: l’uomo sembra aver risputato la mela della conoscenza del bene e del male che egli ha, secondo le Scritture, mangiata in paradiso; dimenticando che tutta la sua storia consiste nel risolvere le contraddizioni fra la sua natura raziocinante e quella animale, egli non utilizza la sua ragione che per trovare le leggi storiche della sua sola natura animale. Le dottrine religiose e filosofiche di tutti i popoli ad eccezione di quelle del mondo pseudo-cristiano, tutte quelle che conosciamo, il giudaismo, il confucianesimo, il buddismo, il brahmanesimo, la saggezza greca, tutte queste dottrine hanno per obiettivo d’organizzare la vita umana e di spiegare alle genti come ciascuno fra loro deve aspirare ad essere migliore ed a vivere meglio. Tutto il confucianesimo consiste in un perfezionamento personale, il giudaismo nel rispetto da parte di ciascuno dell’alleanza con Dio, il buddismo nell’insegnamento del modo con cui ciascuno può sfuggire al male della vita. Socrate ha insegnato il perfezionamento individuale in nome della ragione, gli stoici pongono come unico principio della vera vita una libertà ragionevole. 

Tutta l’attività ragionevole dell’uomo si era sempre concentrata in una sola cosa (e non poteva essere altrimenti) nel sapere, nella delucidazione della sua aspirazione al bene per mezzo della ragione. La nostra filosofia, molto fiera dell’audacia della sua affermazione, ci dice che il libero arbitrio è un’illusione. Ora il libero arbitrio non è soltanto un’illusione, è una parola priva di alcun senso. Questa espressione è stata inventata dai teologi e dai criminologi, e rifiutarla porta a doversi battere contro i mulini a vento. In compenso, la nostra ragione che rischiara la nostra vita e ci conduce a modificare il nostro modo d’agire non è un’illusione e non la si può del tutto negare. Seguire la ragione per raggiungere il bene, è in questo che è sempre consistito l’insegnamento di tutti i veri maestri dell’umanità, così come quello del Cristo, e quella ragione non si saprebbe negarla con la ragione. 

L’insegnamento del Cristo, è la dottrina del Figlio dell’uomo comune a tutti gli uomini, o quella del bene al quale aspirano tutti gli uomini, della ragione comune a tutti gli uomini che illumina l’uomo nel suo desiderio del bene (È perfettamente superfluo provare che il Figlio dell’uomo significhi il Figlio dell’uomo. Perché il Figlio dell’uomo significhi un’altra cosa da quella che queste parole vogliono dire, occorre per prima cosa provare che il Cristo ha volontariamente impiegato, per indicare quel che aveva da dire, delle parole aventi tutt’altro senso. Ma, anche se, come vuole la Chiesa, Figlio dell’uomo vuol dire Figlio di Dio, il Figlio dell’uomo significa tuttavia egualmente l’uomo nella sua essenza, giacché il Cristo chiama tutti gli uomini Figli di Dio). 

La dottrina del Cristo sul Figlio dell’uomo-Figlio di Dio, che costituisce la base di tutti i Vangeli, è espressa nella maniera più chiara nella sua conversazione con Nicodemo. Ogni uomo, dice, oltre la coscienza che egli ha della sua vita corporale, concepita da un padre nel ventre di una madre carnale non può non aver coscienza della sua nascita dall’alto (Giovanni, III, 5-7). Ciò che l’uomo percepisce in sé stesso come una libertà è precisamente ciò che è nato dall’infinito, da ciò che chiamiamo Dio (11-14). Questo che è nato da Dio, quel Figlio di Dio nell’uomo, noi dobbiamo elevarlo in noi per ricevere la vera vita (14-17), Il Figlio dell’uomo è il Figlio di Dio, unito a Dio, e non unico, dato che ne possiede la medesima natura. Colui che eleverà in lui questo Figlio di Dio al di sopra di ogni cosa crederà che la vita risieda unicamente in lui, non sarà dunque separato dalla vita. La separazione dalla vita si produce unicamente poiché gli uomini non credono alla luce che è in loro (38-32) (quella luce di cui è detto nel Vangelo secondo san Giovanni che la vita è in essa e che la vita è la luce degli uomini). 

Il Cristo ha insegnato che occorreva elevare il Figlio dell’uomo, che è Figlio di Dio e luce degli uomini, sopra tutto. Egli dice: Quando avrete elevato (glorificato, magnificato) il Figlio dell’uomo, vedrete che non dico niente di me stesso (san Giovanni, XII, 34). Gli Ebrei non comprendono il suo messaggio, essi domandano: chi è questo figlio dell’uomo che bisogna magnificare? (Giovanni, XII, 34). Ed a questa domanda egli risponde (Giovanni XII,35): “La luce è ancora per poco di tempo in voi” (Tutte le traduzioni danno una falsa lettura di questo passaggio: al posto delle parole “in voi”, si trova “con voi”). Camminate, sino a che avete la luce, affinché le tenebre non vi sorprendano affatto: non sa dove va colui che cammina nelle tenebre”. Alla domanda circa quel che significa “elevare il figlio dell’uomo”, il Cristo risponde: questo significa vivere nella luce che esiste negli uomini.   

(Segue. Le precedenti tre parti di questo saggio sono state pubblicate su “Proposta Radicale” n.8, 9, 10,13, 14-15, 16-17, 18) 

Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

Audizione dell’avvocato Fabio Trizzino

23 maggio 1992: vicino Capaci con una carica di tritolo, RDX e nitrato d’ammonio, vengono uccisi Giovanni Falcone, la moglie del magistrato, gli uomini della scorta. 19 luglio 1992: a via D’Amelio a Palermo vengono uccisi Paolo Borsellino, magistrato e fraterno amico di Falcone, e la sua scorta. Stragi mafiose, attribuibili alla cosca che faceva capo a Totò Riina. Una chiave di lettura non a caso inedita, giudiziariamente affossata, giornalisticamente trascurata, è quella raccontata in quattro libri: M.M., in codice unico del generale Mario Mori; La verità sul dossier mafia-appalti, sempre di Mori e del colonnello Giuseppe De Donno; Ho difeso la Repubblica. Come il processo trattativa non ha cambiato la storia d’Italia, di Basilio Milio; La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino, di Vincenzo Ceruso. 

Chiavi di lettura che hanno trovato uno sbocco istituzionale-parlamentare. La commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, ha ascoltato l’avvocato Fabio Trizzino, che rappresenta i tre figli di Paolo Borsellino, Fiammetta, Lucia, Manfredi e Lucia. Audizioni integralmente trasmesse da Radio Radicale. Proposta Radicale dal n.16-17 ha cominciato a pubblicare gli stenografici di queste sedute, non per caso ignorate dalla grande informazione e da buona parte dei “professionisti dell’antimafia”. Quella che segue è la terza puntata.

Seduta di mercoledì 27 settembre 2023

Presidente Colosimo: “Non c’è problema, prego”.

Trizzino: “Allora dico solo questo particolare perché è molto importante. Sappiamo da Agnese Borsellino che Borsellino fu talmente duro nel confronto con Giammanco che sbatte il pugno sulla scrivania e si fa male. Questo era l’unico resoconto che noi avevamo della giornata del 29. Senonché, grazie alla dottoressa Enza Sabatino, riusciamo finalmente ad avere il racconto di come Borsellino visse quell’incontro. È un racconto che veramente… Poi si dice perché i figli a volte devono stare lontano dalle carte. È facile, quando si tratta di altri. Qui c’è un padre, c’è un giudice che ha dimostrato di non tenere famiglia. Un puro, un uomo attorno al quale tutti dovremo trovare la forza di ricreare uno spirito di identità nazionale. Borsellino ha condotto una via crucis e non ha pensato al «tengo famiglia». No. È andato fino in fondo al suo sacrificio, nonostante tutto. Se l’Italia non decide di affrontare questo dolore immenso, tutte le componenti istituzionali devono avere il coraggio di guardare a questa tragedia con l’onestà, il senso del perdono da invocare da noi e dagli italiani onesti, che sono la maggior parte. È andato incontro al suo sacrificio senza avere il pensiero «tengo famiglia». Ha messo il Paese al di sopra di tutto. Quanti oggi hanno questo approccio? Noi ce l’abbiamo lo sapete perché? Abbiamo perso tutto. Abbiamo la felicità, diceva un cantautore che sono sicuro pochi conoscono, Franco Fanigliulo. Noi abbiamo la felicità di avere perso tutto, non solo il congiunto ma anche la verità. Chi più di noi ha attraversato questo dolore e nonostante tutto abbiamo sempre avuto e avremo fino alla fine dei nostri giorni il rispetto per tutte le istituzioni? È giunto il momento che attorno a Borsellino non ci siano divisioni. Quello che ci ha offeso più di tutto in questi anni, che ci ha devastati è pensare che la sua famiglia non sia stata lì a implorare la verità. Non è così…

Quindi cosa succede? La Sabatino parla della telefonata che fanno con Borsellino il 29 giugno, di sera. La Sabatino era passata in ufficio, doveva parlare con Borsellino, ma quel giorno era iper-occupato, quindi si sentono la sera. È Borsellino che chiama la Sabatino. Le giudici Sabatino erano due: la dottoressa Vincenza Sabatino e la sorella. Sentite cosa dice, dovete consentirmi questa lettura, la trovate ovviamente tra le audizioni della dottoressa Sabatino rese al CSM il 30 luglio del 1992: «Un’altra cosa vorrei ricordare» – è la Sabatino che parla – «perché mi impressionò pure. Era un giorno della fine di giugno e la mattina, nel corso della mattinata, io ero andata nella sua stanza per parlargli non ricordo più di cosa, ma niente di importante. Non lo trovai nella stanza e ritornai dopo un po’. Non c’era ancora e chiesi dove fosse, un commesso mi rispose che era dal procuratore. E poi lo trovai nella stanza nella tarda mattinata, era già oltre l’una, saranno state l’una, l’una e un quarto, l’una e venti. E siccome era impegnato perché c’erano delle persone, io gli feci soltanto un cenno e gli dissi ci sentiamo dopo. Poi lui mi telefonò. Gli ho parlato e mi ha impressionato il tono, il tono di voce, perché era proprio molto molto abbattuto...» Altra voce, è un membro della commissione del CSM: «Si ricorda approssimativamente il giorno?». Sabatino: «Sì, era sicuramente fine giugno, era fine giugno». «Se 29 giugno, lunedì, o 28, o 27?». «No, no, in questo momento davvero non mi ricordoNon me lo ricordo perché non c’era un motivo particolare. Io proprio mi ricordo che quella sera rimasi impressionata dal tono di voce che non era usuale; quindi, lui mi ha chiesto quasi scusa, ha detto:Non ti ho potuto telefonare oggi”. “Ma figurati”, gli ho detto, “Non era niente di importante, poi ci vediamo”. Mi disse però che il giorno dopo doveva partire forse per Roma».

Effettivamente Borsellino il 30 giugno e il 1 luglio risulta essere a Roma a interrogare Mutolo e Messina assieme ad Aliquò. Quindi si stabilisce nel corso delle domande che il giorno era il 29 e allora qui abbiamo la parte in cui dice: «Poi io per fargli una battuta gli dissi: «Piuttosto, Paolo, so che oggi sei stato in buona compagnia, con il capo’. E lui anziché rispondermi in tono scherzoso ha continuato sullo stesso tono e mi ha detto una cosa che mi aveva impressionato un po’ perché mi ha detto: «Ah, oggi è stata una cosa brutta e ci sono stati momenti in cui mi sembrava di essere tornato ai vecchi tempi, di quelli peggiori». E ha poi troncato il discorso dicendo: «Va be’, poi ti conto», cioè: «Va be’ poi ti racconto».

Quindi Borsellino in quella giornata del 29, oltre a risolvere il problema, deve contrattare col suo procuratore quale formula organizzativa adottare per ottenere in qualche modo la gestione del fascicolo relativo a Mutolo. Arrivano a una conclusione alquanto bizzarra, cioè la titolarità resta in capo ad Aliquò, Lo Forte e Natoli, i quali, a penna scrive Giammanco, «si coordineranno con il dottor Borsellino».

Borsellino, che conosceva anche lui le formule organizzative, dice: «Ma che significa, sono titolare o no? Devo andare a raccogliere l’interrogatorio. Posso io dare deleghe di indagine, non le posso dare, devono riferire a me?». Insomma, era una formula assolutamente nuova che non aveva alcun significato. Infatti, Borsellino si reca a interrogare Mutolo il primo giorno; quello lo vede arrivare e dice: «No, io non parlo con Aliquò». «No, lei deve parlare». Infatti, verbalizzano in modo tale da non offendere giustamente Aliquò. Mutolo dice: «Io sono disposto a parlare anche in presenza del dottor Aliquò». Ma chiaramente tu stai mettendo il collaboratore nelle condizioni di non parlare, se vuoi proprio francamente saperlo, se ti comporti così.
 li ultimi due interrogatori sono del 16 e del 17 e succede una cosa incredibile: vanno in compagnia di Lo Forte e di Natoli, e Borsellino (lo dice Lo Forte, lo conferma anche Natoli): «Con loro è come se lei parlasse con me, parli anche di fronte a loro, stia tranquillo, non c’è problema». Quindi fanno l’interrogatorio, però c’è sempre questa benedetta formula organizzativa per cui Borsellino in realtà è quasi un intruso da dentro. Tant’è che a un certo punto il 17 mattina Borsellino si incavola: «Interrompo l’interrogatorio». Questo emerge dai verbali. Noi non l’abbiamo mai saputo da nessuna parte. Dice: «Non voglio fare lo specchio per le allodole per nessuno, qua o entro come titolare del fascicolo o non entro». Ecco che intervengono Lo Forte e Natoli: «Ci pensiamo noi, parliamo noi con Giammanco». Fanno la telefonata e dicono: «Paolo, non c’è problema, avrai la delega». 

Con tutto il rispetto per l’amicizia con cui magari Lo Forte e Natoli l’hanno fatto, considero estremamente umiliante che due magistrati più giovani debbano chiedere al capo di intercedere per un procuratore aggiunto dello spessore di Borsellino. Questa è una mia considerazione, prendetela per quella che è. Allora, succede che Borsellino deve tornare a Palermo nel primo pomeriggio, Natoli e Lo Forte continuano l’interrogatorio. La mattina del 18, cioè un giorno prima della strage, Borsellino ha finalmente la delega formale, lo dicono due testimoni qualificati: Teresi e la dottoressa Principato; poi lo dice un elemento oggettivamente importante fattuale. Nella borsa di Borsellino il 19 luglio, lo dice Aliquò nel verbale della commissione, vi era il fascicolo di Mutolo. Quindi Borsellino andò la mattina a prendersi il fascicolo una volta ottenuta l’assegnazione e lo trovano nella borsa di Borsellino, così come da verbale di sequestro cui fa riferimento Aliquò nella sua audizione in commissione. Soprattutto, ripeto, valgono le dichiarazioni di Teresi rese in commissione e rese davanti alla procura della Repubblica di Caltanissetta e le dichiarazioni di Teresa Principato. «Paolo ci disse che finalmente aveva avuto la delega sul fascicolo Mutolo». Questo, e concludo, depotenzia tutte quelle ricostruzioni volte ad attribuire alla telefonata del 19 luglio del 1992 la composizione della querelle legata all’assegnazione formale del fascicolo di Mutolo”.

Presidente Colosimo: “Io vorrei dire una sola cosa perché non credo che ci sia molto da aggiungere, prima di riprendere questa audizione in una data concordata, il prima possibile perché si possa concludere e perché i commissari possano fare le loro domande. Credo che noi dovremmo chiedere perdono se non siamo riusciti in tutti questi anni a dare una risposta alle tante domande che fin qui avete posto, e lo avete fatto con sofferenza e amore che ci avete trasmesso. Abbiamo sentito il cuore batterci nei timpani. Quindi, riprendendo quello che diceva all’inizio, vorrei che di questa Commissione non si avesse mai a dire che non si è fatto quello che si doveva fare. Grazie a tutti”.

3. Continua)

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